Quella mezz’oretta

Roberto Beccantini9 agosto 2020

E’ stato discreto, il Napoli nel Sahara del Camp Nou, un palo scheggiato subito da Dries Mertens e un altro, a giochi ormai fatti, pizzicato da Hirving Lonzano. Il problema è la mezz’ora che Leo Messi ci ha infilato a nome e per conto del Barcellona. Gli extraterrestri si fiutano, si sopportano ma sanno che le sgommate dell’uno sono la benzina dell’altro. E così, alla doppietta «inutile» di Cristiano, 35 anni suonati, ecco la replica della Pulce, 33 da giugno. Un gol in caduta, da acrobata circense; un altro annullato per una manina colta misteriosamente dal Var (se mai, era da revocare il primo di Clément Lenglet, per spintarella di luna); il rigore procurato e lasciato alla mira di Luis Suarez dopo che Kalidou Koulibaly, non proprio in versione michelangiolesca, gli aveva speronato una caviglia.

Se Cristiano è uno scultore, Leo è un pittore. L’uno martella, l’altro pennella. Dal loro dualismo è nata una saga, splendida, che ha contribuito ad appassionarci e a esaltarli, 6 Palloni d’oro l’argentino, 5 il portoghse. Ma sto divagando.

Il penalty di Lorenzo Insigne ha fissato poi il tabellino sul 3-1, risultato che spazzava via gli spiccioli riposti nel salvadanaio dell’1-1 dell’andata. Rino Gattuso sa di avere una squadra che lo segue. Non ancora matura per eliminare il Barcellona, ma abbastanza attrezzata per dargli fastidio. E’ mancato Mertens, sono mancate la precisione nell’ultimo passaggio, da Fabian Ruiz a Piotr Zielinski, e la dinamite sotto porta: anche e soprattutto quando gli avversari – privi di Sergio Busquets e Arturo Vidal, squalificati – difendevano nel cortile di casa. Positivo, agli sgoccioli, il contributo di Arkadiusz Milik. E regale, fin dall’inizio, Frenkie de Jong.

Nota dolente, gli arbitri: difficile stabilire chi sia stato il peggiore fra lo Zwayer torinese e il Cakir catalano. Consiglio il sorteggio.

Manicomio (senza trattino)

Roberto Beccantini8 agosto 2020

Ma come, Agnelli definisce il nono scudetto «un’impresa» e poi licenzia Maurizio Sarri? Champions ci cova, naturalmente. Perché l’ossessione era e resta quella lì: il «sogno» diventato «obiettivo». Non sono d’accordo, lo sapete. Avrei tenuto «C’era Guevara» e gli avrei disegnato attorno guerriglieri più giovani, più adatti alla sua «Poderosa». Le rivoluzioni costano: non si può pensare di rovesciare la tradizione sporcandosi solo il bavero. Soprattutto in Europa, là dove non sempre ti baciano.

Invece no. Nell’arco di due stagioni, John Elkann e Andrea hanno preso le classifiche e le hanno buttate nel cesso: via Massimiliano Allegri, che di campionati ne aveva vinti addirittura cinque, e via pure il Comandante, al primo, storico hurrà dopo la scapigliatura napoletana e l’Europa League con il Chelsea.

Una mossa banalotta, da padrone delle ferriere. Paga, Sarri, l’importanza smodata e morbosa che diamo agli allenatori. Strapagati, spacciati per maestri e poi, se le cose non vanno come la propaganda millanta, gettati nel cestino. La fa franca, per ora, Fabio Paratici, il cui mercato, molto confuso, non ha certo aiutato il Predicatore.

All’alba dei Novanta, Gigi Maifredi e il suo calcio champagne fecero la fine del Titanic contro l’iceberg di un settimo posto. Oggi, in tutt’altre circostanze e con ben altri esiti, è il turno di Sarri, così elastico e scafato da scendere a patti con Cristiano e gli altri califfi, non così energico e coerente – evidentemente – da sapervi rinunziare. Perché la sponda del fiume è sempre piena di turisti in attesa del cadavere. Perché la Champions è tutto, e le svolte estetiche sono le favole che i giornali raccontano agli adulti per farli addormentare.

L’operazione Marziano è costata un occhio della testa.
Leggi tutto l’articolo…

Dov’è la notizia?

Roberto Beccantini7 agosto 2020

Dov’è la notizia? Nelle partite «dirette», fra l’ultima Champions e l’attuale, ha segnato solo Cristiano: sette gol. Tracce di grande giocatore, non di squadra grande. E così la Juventus è fuori, e anche questa non è una notizia. Negli ottavi, non succedeva dai supplementari bavaresi del 2016. Per spiegare «questa» notte, non si può non riandare a «quella» del 26 febbraio, alla vittoria del Lione dopo che Madama gli aveva regalato un’ora. Lo smacco nasce tutto lì.

Gli episodi, certo. Il rigore su Aouar, poi trasformato da Depay, era molto, molto dubbio; e quello dello stesso Depay molto, molto da mani-comio, e nel baratto, di sicuro, ci hanno guadagnato i «violini» di Garcia. Settimo in Francia al momento dello stop, e con una sola gara ufficiale nelle gambe dall’8 marzo, il Lione si è difeso agli ordini di Aouar, un signor centrocampista di 22 anni.

Sarri non poteva inventarsi un’altra Juventus. Ha dato fiducia a Higuain: per carità. Ha rischiato Dybala, nel finale, e Dybala si è rifatto male. La difesa prendeva sempre gol, e un altro l’ha preso. Il centrocampo era lento, timido e non osava lanci ficcanti, smarcanti: perché mai Pjanic e Bentancur avrebbero dovuto trasfigurarsi? Non restava che la carta Cristiano. Ha fatto il possibile e l’impossibile: con l’Atletico bastò, con i francesi no. E in generale: troppi fuorigioco, troppi passaggi indietro e rare emozioni (il numero di Bernardeschi, sì, ma uno solo). In Europa è diverso, Paratici cita spesso i 3.000 giorni da campioni d’Italia, ma l’ultima Champions risale al 1996, e questa è una ferita, profonda, che i cerotti delle finali medicano ma non guariscono.

Perse Supercoppa e Coppa Italia, fuori già agli ottavi, il nono scudetto non può nascondere il fallimento, se vincere divertendo era il messaggio aziendale. Ma Sarri lo terrei comunque: rinfrescherei la rosa. E chiederei scusa ad Allegri.